Niente di meglio, nella giornata internazionale dedicata al lavoro, che parlare della “Disoccupazione creativa” (Boroli Editore, 2005), ovvero il folgorante libro di Ivan Illich: un vero profeta anticipatore dei temi della contemporaneità.
La disoccupazione creativa non ha nulla a che vedere con la perdita di posti di lavoro ma, al contrario, con la riconquista di quelle professioni, di quei saperi e di quelle competenze “informali” che vengono escluse dal processo produttivo e non considerate come “vero lavoro”: oggi infatti, il “vero lavoro” è sancito per legge e sono i così detti esperti che – nella società contemporanea – detengono il monopolio della distinzione tra chi si può fregiare del titolo di “vero” lavoratore e chi invece è un “ozioso” (indipendentemente da quello che fa).
Attualmente ogni bisogno convalidato dalle professioni si traduce prima o poi in un diritto e tale diritto una volta che si trova sotto la pressione politica trova riconoscimento dalla legge e dà luogo a nuove occupazioni e a nuovi prodotti.” (“Disoccupazione Creativa”, pag.69).
Nella mia scuola la dirigente afferma: “la sicurezza è una priorità!”… ci sono manuali per la sicurezza, abbiamo fatto dei corsi, investito denari, istituito addetti, chiamato formatori e specialisti in sicurezza: solo gli esperti possono dire quando una scuola è sicura e quando non la è, anche a dispetto di ogni evidenza! L’idea che la sicurezza sia un diritto/bisogno sancito dalla legge sottrae la sicurezza al buon senso e la porta nei manuali, nelle procedure e nello scrupoloso rispetto delle normative. La dirigente della mia scuola, probabilmente, non tiene alla sicurezza (ovvero alla nostra incolumità fisica e morale) ma al rispetto delle norme che discriminano una scuola sicura da una scuola insicura: insomma se si è a norma si è sicuri, se si è “fuori legge” si è non si è sicuri, indipendentemente dal dato di realtà! La norma e le procedure corrette definite dagli esperti, infatti, sono la realtà.
Ogni nuovo prodotto degrada un’attività grazie alla quale la gente era, fino ad allora, capace di cavarsela da sola. (Ibidem, pag.71).
La nostra è una società, insomma, fatta di bisogni stabiliti da esperti (dalla sfera del cibo a quella della mente a quella epocale della salute); esperti che sono diventati i veri nuovi sacerdoti della contemporaneità. Un’amica qualche sera fa faceva la seguente considerazione: “la nostra generazione (quella dei quarantenni, NdA) non è stata in grado di rompere con il sistema produttivo attuale, non ha saputo inventarsi, come i nostri nonni, una professione creativa…”. Ivan Illich le risponderebbe che “in una società industriale avanzata diventa quasi impossibile cercare o anche soltanto immaginare di fare a meno di un impiego per dedicarsi a un lavoro autonomo e utile… solo con un certificato di abilitazione puoi insegnare a un bambino…” (Ibidem, pag.71). Se una persona cade per strada devi aspettare il 118 perché non si sa mai che abbia qualcosa di rotto e poi se l’aiuti… vai nei guai! Gli esperti-certificati ci hanno rubato azioni quotidiane e possibilità di immaginare di esistere al di fuori di un percorso lavorativo certificato da un ente preposto. “Il lavoro non è produttivo, rispettabile, degno di un cittadino se non quando è programmato diretto e controllato da un rappresentante delle professioni, il quale garantisca che risponde in forma standardizzata a un bisogno riconosciuto.” (Ibidem, pag.72): il contenuto del lavoro, i rapporti di potere che esso determina poco importano, purché sia un “vero” lavoro sancito per legge.
Insomma, mai come adesso – a mio avviso – il lavoro va rivendicato non come diritto a un’occupazione ma come diritto alla scelta di un sistema produttivo e diritto alla sua legittimazione al di fuori dell’attività produttiva in senso strettamente capitalistico (che consiste nella produzione di merci e dei bisogni che ne sanciscono la produzione). Per realizzare l’alternativa sociale occorre una nuova competenza razionale e cinica, fantasiosa e laica (senza fede nel Mercato) che ci liberi dal monopolio professionale dei bisogni e apra la possibilità di ripensare radicalmente il senso del lavoro.