Oggi più che mai ciascuno di noi rischia di caricare la crisi sulle proprie spalle, scambiando per un fallimento individuale una perdita di senso che è “fuori di noi”: molti intraprendono percorsi di terapia personale curando a proprie spese un dolore “che viene da fuori” e – forse – endemico al nostro modello economico e sociale neoliberista.
La Crisi prima di essere economica è – a mio avviso – culturale.
Per questo come artista ho sentito l’urgenza di cantare del nostro tempo, della crisi, del nostro precariato esistenziale e delle sue contraddizioni (non che non ce ne fossero in altri tempi!). Il frutto del mio lavoro (affiancato da Federica Bognetti, Leonardo Morini e Alessandro Sgobbio per ciò che concerne la realizzazione e le musiche) è l’Opera Popolare Interinale per coro e Piccola Orchestra Precaria che è andata in scena il 14 e 15 Aprile scorso al Teatro Due di Parma.
Di seguito potete trovare un “sunto” nonché tutta l’Opera Popolare Interinale suddivisa in quattro parti. La qualità video del web è a bassa risoluzione, per ciò che concerne l’audio ho tentato invece di mantenere una discreta qualità: entro l’estate uscirà il disco.
La società in cui siamo immersi, ha privatizzato anche il dolore affondandolo tra le mura domestiche, incorporandolo nella “normalità” del ménage familiare (ciascuno é chiamato ad occuparsi di sé stesso o al massimo dei propri parenti). Tutto ciò ha creato il tremendo equivoco secondo il quale ognuno deve affrontare le questioni pubbliche in forma privata, poiché nella logica della privatizzazione globale “meglio che ciascuno pensi per sé: già facciamo fatica ad occuparci di noi stessi, se ci mettiamo anche a pensare ad altri la situazione peggiorerà!”. Secondo questo principio tutte le energie positive sono privatizzate e gelosamente custodite nell’ambito della sfera personale ed individuale.
Così ci ritroviamo soli ad affrontare una lotta che andrebbe affrontata collettivamente e che per questo “è persa in partenza”; ma la Crisi è anche questo: essere convinti di dover affrontare il nostro momento storico contando solo su noi stessi.
Gli artisti dovrebbero dunque unirsi nel cantare la contemporaneità: le parole dell’arte possono guarire le ferite del presente ed essere utilizzate per costruire ponti attraverso i quali muoversi nel nostro tempo tra una contraddizione e l’altra, tentando di affrontare lo spettro della perdita di senso: la Crisi appare prima di tutto come uno smarrimento dell’esistere e dell’agire del mondo Occidentale basato sul mercato e sul profitto come regola di vita, in cui tutto il linguaggio di un’epoca e la sua retorica positivista e fiduciosa nel progresso è in discussione e declino.
Poi viene la politica, quella vera, che deve ritornare ad occuparsi della Polis, ricostruire la fiducia nelle relazioni e progettare spazi di Felicità Pubblica, “addomesticandoci” alla condivisione del bello ma anche della difficoltà, in modo che i “ritagli privati” di benessere goduti in solitudine, divengano sempre più residuali e possano diventare solo il ricordo di un’epoca passata.